Il COVID-19 a 100 anni dalla Spagnola
Scritto da Giuseppe Musolino il Apr 14, 2020 | 2 commentiSono ormai diverse settimane che la vita di pressochè tutti gli abitanti del pianeta è stata sconvolta a seguito dell’epidemia del Coronavirus. Non manca l’informazione attraverso la Tv, i giornali e la rete per cui tutti conosciamo la situazione momento per momento. Tuttavia ho deciso di scrivere questo post per condividere alcune cose che mi è capitato di leggere in questo periodo e che mi sembrano interessanti perchè stimolano riflessioni a 360 gradi sulla malattia e sulla società.
Inizio parlando del libro di Jared Diamond Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni pubblicato in Italia da Einaudi nel 1998 e segnalatomi da mio figlio Giorgio. Diamond è un poliedrico studioso americano nato nel 1937 a Boston, attualmente professore di geografia e di scienza della salute ambientale presso l’Università della California, ma con un passato di biologo, antropologo e relative interconessioni. Il saggio fondamentale che gli valse il Premio Pulizer nel 1998 (vedi copertina qui a fianco) indaga in profondità sull’evidente differenza che c’è tra il mondo cosiddetto occidentale e bianco e le aree meno ricche e fornite di beni del pianeta come l’Africa, tanto per fare un esempio. Per sviluppare il suo ragionamento Diamond parte da una domanda che dice di aver ricevuto da Yali, un abitante della Nuova Guinea: “Come mai voi bianchi avete tutto questo cargo e lo portate qui in Nuova Guinea, mentre noi neri ne abbiamo così poco?“, ove con cargo Yali si riferiva a tutti i beni, tecnologici e non, di cui i papuani erano privi mentre i bianchi che lui vedeva arrivare erano abbondantemente forniti. La domanda, afferma Diamond, può essere posta anche in un’altra forma, ancora più destabilizzante: perchè sono stati gli europei e gli americani a sviluppare una tecnologia di cui si sono serviti per invadere tutto il pianeta e non, per esempio, gli egiziani, i sumeri, o gli antichi cinesi i quali erano attivi molti secoli prima di loro? Perchè l’Europa ha colonizzato l’Africa e non è successo l’inverso? In tutto il volume di 400 pagine si sviluppa un ragionamento basato anche sulle osservazioni dirette che l’Autore aveva avuto modo di effettuare in giro per il mondo durante gli studi di antropologia e infine giunge a una conclusione che non sembra ammettere repliche: gli europei e i cosiddetti “occidentali” ebbero dalla loro l’alto numero di abitanti consentiti dallo sviluppo dell’agricoltura che forniva alimenti abbondanti in grado di sostenere un numero potenzialmente illimitato di persone fra le quali c’era circolazione di idee, concorrenza, scambio di informazioni, tutti elementi fondamentali per l’introduzione di nuove tecnologie e nuove scoperte. Ma perchè l’agricoltura si sviluppò proprio in Eurasia e non in Africa o in America? Diamond svolge un’analisi dettagliata e dimostra che lo sviluppo secondo la direttrice Est-Ovest del continente europeo consentì per via delle condizioni climatiche pressochè analoghe, nonchè l’assenza di insormontabili ostacoli naturali, la rapida diffusione delle piante alimentari domesticate ad alta produttività. L’Africa e l’America hanno sviluppo prevalentemente in direzione Nord-Sud e questo impedisce l’applicazione delle medesime tecniche colturali da un punto all’altro per via delle notevoli differenze climatiche.
Il decisivo contributo favorevole allo sviluppo europeo e successivamente occidentale in senso più largo, venne dalla possibilità della domesticazione di animali da carne e, soprattutto, da lavoro che hanno aiutato i primi agricoltori a passare dall’economia di sussistenza dei primi cacciatori-raccoglitori a quella dell’opulenza delle società agricole. In Africa e in America, afferma Diamond, non c’è un solo animale di grossa taglia suscettibile di domesticazione e quindi quegli uomini non poterono mai intraprendere il cammino che porta alla produzione di beni nelle quantità necessarie per mantenere quell’élite dedita all’innovazione e alla struttura politica centralizzata che noi chiamiamo stato con tutto il suo apparato di scribi, studiosi, astronomi, soldati, costruttori, inventori, artigiani, e così via. Fu in questo modo che gli europei si dotarono di armi di acciaio, di cavalli, di buoi per aratura e traporto, di animali da carne e lana, di edifici, di strade e tutto ciò che serve a conquistare e sottomettere popoli. Esemplare è la vicenda dei conquistadores spagnoli che con pochi uomini ma dotati di cavalli e spade di acciaio riuscirono in poco tempo a conquistare popoli del sudamerica che erano enormemente più numerosi ma poco dotati di tecnologia e senza cavalli. L’altro alleato che ebbero gli occidentali — e qui mi avvicino al tema del post — furono degli esseri invisibili e micidiali di cui erano portatori i conquistatori e cioè i virus responsabili di malattie letali cui gli indigeni americani e africani non erano preparati a resistere perchè mai li avevano incontrati prima. I virus, la vera arma segreta dei popoli europei, avevano da sempre accompagnato la loro evoluzione poichè solo in Europa e nel vicino oriente c’erano le condizioni per la sopravvivenza dei minuscoli microrganismi: la grande densità di popolazione resa possibile dall’agricoltura e la vita in promiscuità con gli animali domesticati, condizione che abbiamo visto essere connaturata con la pratica dell’agricoltura. Ecco tutto d’un tratto che ci appare chiaro il legame tra agricoltura, densità di popolazione, domesticazione e coabitazione con gli animali, con la presenza dei virus che, periodicamente, sfocia in terribili epidemie. E’ ovvio che virus e alta densità di popolazione sono un binomio inevitabile: come potrebbero diffondersi e sopravvivere, per non dire anche mutare, degli “esseri” incapaci di riprodursi autonomamente in mezzo alla foresta amazzonica dove, dopo aver eventulmente avuto sviluppo in qualche individuo e aver contagiato e distrutto tutta la sua tribù di non più di 10-20 individui, si estinguerebbe per la mancanza di altri soggetti cui passare per poter sopravvivere. Se anche siano avvenute nascite di virus in luoghi a bassa densità di popolazione, certamente si saranno estinti senza dare origine nemmeno a gruppi di popolazione resistente, perchè mancava proprio la popolazione. Ecco perchè quando la civiltà dei bianchi è venuta a contatto con quella dei nativi americani o africani sono state solo le malattie dei primi ad aver stermianto i secondi e non viceversa, a parte qualche malattia particolare che qui non è rilevante. Armi, acciaio e malattie, il titolo del libro di Diamond, riassume bene i punti di “forza” della civiltà occidentale, forse ancora più chiari nel titolo originale del libro Guns, Germs and Steel dove germs è particolarmente efficace nel descrivere una delle armi più letali a disposizione dei conquistatori. Ritornerò alla fine su questo libro per mostrare una cartina in cui sono evidenziati i luoghi in cui hanno avuto origine gli stati organizzati più forti della storia dell’umanità per metterli in relazione con qualcosa che andremo a scoprire qui di seguito.
Quando era già iniziata l’epidemia del Covid-19, mi sono soffermato a riflettere su un dato che mi era noto a livello storico globale e poi anche a livello locale. Parlo dell’epidemia più grande della storia recente e cioè quella avvenuta un secolo fa conosciuta con il nome di Spagnola. Siamo nel 1918 e in piena Prima guerra mondiale. Nel mese di ottobre in tutto il mondo si diffonde una terribile epidemia già iniziata in primavera che si va a sovrapporre alle campagne belliche. Solo la Spagna che non partecipò al conflitto consentiva alla libera stampa di diffondere i dati sui contagiati e morti, mentre gli altri paesi imposero la censura per evitare che si creasse un cortocircuito tra i soldati nelle trincee e le famiglie decimate dalla malattia con esiti negativi sul morale e, in definitiva, sugli esiti delle campagne militari. Fu così che l’epidemia fu identificata col nome della nazione apparentemente più colpita — e pertanto individuata come focolaio iniziale — mentre la verità era di tutt’altra natura. Mentre ero alla ricerca di qualche studio sull’epidemia di spagnola, ho trovato in rete un articolo molto interessante. E’ superfluo che aggiunga che si tratta di una fonte autorevole e cioè della rivista dei medici infettivologi e di malattie tropicali dell’Università di Salerno dal titolo «Le Infezioni in Medicina», Official Journal of the Italian Society of Infectious and Tropical Diseases (il numero 2 del 2020 è giustamente dedicato al COVID-19 ed è consultabile qui).
L’articolo di cui parlo è stato pubblicato dai proff. Sergio Sabbatani e Sirio Fiorini (degli ospedali di Bologna e Budrio) nel 2007 col titolo La pandemia influenzale“spagnola” in «Le Infezioni in Medicina» (n. 4, 2007, pp. 272-285 consultabile qui. Notare la citazione del patologo e clinico di Conflenti Tommaso Pontano). I dati fanno impressione: in tutto il mondo ci furono 1 miliardo di contagiati, almeno 25 milioni di vittime e in Italia, dopo 11 mesi di pandemia, si contarono 600mila morti. Ma l’articolo è importante non tanto per le informazioni numeriche, d’altronde già note, quanto perché gli autori ricostruiscono il percorso seguito dal virus per circolare fino a noi e, soprattutto, per le importanti ipotesi sulla sua origine. Lascio al lettore il piacere di leggere integralmente l’articolo e vado alla parte che qui interessa. Ecco cosa scrivono gli autori:
Il quesito che virologi, epidemiologi e clinici si sono posti e sul quale continuano a indagare è come e perché l’evoluzione epidemica, dopo la prima fase primaverile [del 1918], assunse le caratteristiche maligne che, a partire dal mese di settembre, determinò la morte nel mondo di decine di milioni di persone. Vastissima è la letteratura che si è occupata dell’argomento e le tesi proposte sono articolate e problematiche. Come già accennato, una sintesi della complessa materia potrebbe indicare che il virus pandemico del 1918 poteva provenire direttamente dai volatili. Infatti, secondo alcuni studiosi, il virus avrebbe infettato gli uomini adattandosi ad essi nella fase primaverile, poi sarebbe passato ai maiali e da questi sarebbe nuovamente transitato agli uomini, con aumento della virulenza, nella fase autunno-invernale. Il modello spiegherebbe perché chi contrasse l’influenza in primavera non si sia riammalato in autunno e in inverno. Queste ricerche importanti, hanno comunque il limite di studiare un virus assemblato su materiale genetico di soggetti deceduti più di ottanta anni fa, con ricostruzioni di geni effettuate in laboratorio. […] È difficile stabilire quali furono i percorsi dell’epidemia nel nostro paese: le città sembravano essere flagellate più precocemente, maggiormente bersagliati erano i quartieri affollati, ove l’igiene scarseggiava, ma numerose erano le eccezioni. Dalle città capoluogo l’epidemia si spostava nei comuni della provincia, ove si osservava una diffusione più lenta. Il tasso di letalità, all’epoca avvalorato dalle autorità, era tra l’1 e il 2%, ma in certe città raggiunse l’8%. Nei centri abitati, ad alta densità abitativa, la durata dell’epidemia era più breve, dopo 20-30 giorni i casi nuovi tendevano a diminuire. Nelle città più importanti del paese si registrò una fase ascendente di un paio di settimane, con l’acme nella seconda metà di ottobre, con tendenza a decrescere in novembre. Secondo l’Istituto Centrale di Statistica, la regione che ebbe in assoluto il numero maggiore di morti fu la Lombardia (36.653), seguita dalla Sicilia (29.966). Le regioni con i più alti tassi di mortalità per Spagnola furono Lazio, Sardegna e Basilicata. Va precisato che questi dati sono parziali e non riflettono assolutamente l’andamento dell’epidemia. Per la Spagnola non si osservò un maggior coinvolgimento delle classi meno abbienti rispetto alle più agiate, come di solito si rilevava nelle epidemie. In riferimento alla professione, gli italiani più colpiti furono quelli che per ragioni di servizio avevano frequenti contatti con i contagiati: infermieri, negozianti, autisti, telefonisti. La malaria, la tubercolosi, le malattie croniche di cuore furono tra i fattori predisponenti più importanti nei soggetti che ebbero un’evoluzione infausta.
L’impressione generale fu che il sesso femminile sia stato più colpito rispetto al maschile, ma tale rilievo è viziato dalla sproporzione determinata dal tributo in vite umane maschili conseguenti al conflitto che, nell’autunno del 1918, incideva pesantemente sugli equilibri demografici del nostro paese. Dell’evidenza che l’epidemia fu particolarmente aggressiva nei confronti dei giovani si è già parlato. Le aspettative di vita, che nel 1918 scesero a 30 anni per gli uomini e a 32 anni per le donne, non avevano mai raggiunto un valore così basso in Italia dalla metà del XIX secolo.
Il passo più importante dell’articolo è, secondo me, quello in cui si parla del luogo di origine del virus:
Diversi epidemiologi hanno ipotizzato che il virus della spagnola si sia diffuso originando dalla provincia del Kwangtung [Guandong], che in origine questo virus albergasse negli uccelli e che, grazie a modificazioni genetiche, si sia trasmesso ai maiali determinando un’influenza suina e poi si sia trasferito all’uomo. È stato ipotizzato che ci sia voluto circa mezzo secolo per la trasformazione del virus da aviario in umano e che, al termine di questa mutazione, sia diventato un ceppo letale per gli esseri umani. Questa ipotesi vedrebbe appunto nella Cina meridionale l’origine del virus.
Ma che cos’ha di speciale questa regione? Lo spiegano gli autori dell’articolo:
Secondo Kennedy Shortridge [professore di microbiologia all’Università di Hong Kong], l’Asia, e in particolare la Cina meridionale, sarebbe l’epicentro delle epidemie influenzali. Il virus viene ospitato nei volatili, le anatre principalmente, allevate in gran numero in questa regione. Si creerebbe un circuito ove entrano in gioco le anatre, i maiali e l’uomo. Fin dal secolo XVII i contadini cinesi trovano l’opportunità di tenere le risaie libere da erbacce e insetti grazie all’utilizzo delle anatre. Mentre il riso cresce, lasciano nelle risaie sommerse le anatre, che mangiano gli insetti e le erbacce, ma non toccano il riso. Quando questo comincia a maturare, tolgono le anatre dalle risaie e le spostano nei canali e negli stagni. Dopo il raccolto, riposizionano le anatre nelle risaie ora secche. Qui i volatili si cibano dei grani di riso caduti a terra, ingrassando considerevolmente. La zootecnia dei suini viene svolta in contiguità con i volatili, così si realizzerebbe il passaggio del virus influenzale ai suini e da questi l’adattamento del virus nei confronti dell’uomo si realizzerebbe attraverso modificazioni genetiche. A sostegno di questa tesi ci sarebbe l’evidenza che le epidemie influenzali sembrano cominciare sempre in quella regione dell’Asia corrispondente alla Cina meridionale.
L’articolo che ho ampiamente citato risale a 13 anni fa ma sembra scritto ieri stante la perfetta corrispondenza con quello che sta accadendo oggi: la stessa regione di origine, stessa diffusione, stesso decorso sia pure con differenze cliniche dovute alla caratteristiche specifiche del coronavirus. E in effetti, a pensarci bene, non è vero che ogni anno in Europa e nel mondo, all’arrivo della stagione autunnale, si attende l’arrivo dell’immancabile epidemia influenzale il cui ceppo viene sempre puntualmente isolato nelle regioni orientali e sulle risultanze vengono poi preparati i vaccini per tutti noi? Perchè dovrebbe arrivare sempre dalla stessa regione del mondo se non ci fosse, come evidenziato qui sopra, un serbatoio perenne di virus mutanti che alberga in animali sempre in stretto contatto gli uni con gli altri e poi con l’uomo? La storia dei pipistrelli e dei topi che quest’anno è andata assai di moda e potrebbe anche avere qualche fondamento, non spiega la vera genesi della mutazione e della diffusione del contagio. Anche ammettendo (appurarlo spetta agli scienziati) il coinvolgimento dei pipistrelli come vettori intermedi, resta sempre aperta la domanda su dove risieda il serbatorio di virus da cui spunterà l’ennesima mutazione per la seconda ondata autunnale e quella invernale.
Anche se mi sono leggermente dilungato su aspetti medico-scientifici che vanno lasciati alle persone competenti in materia, torno al discorso iniziale. Confrontiamo tre cartine che indicano rispettivamente: 1) i luoghi di origine dell’agricoltura; 2) la densità di popolazione del pianeta Terra; 3) il flusso di trasmissione dell’epidemia di Spagnola nel 1918; 4) la distribuzione dei casi di COVID-19 al 12 aprile 2020.
Che cosa si nota in queste immagini? Che gli eventi rappresentati si verificano tutti nelle stesse zone: la fascia media-temperata al nord dell’Equatore, con esclusione delle latitudini troppo elevate (Diamond aggiunge anche la cartina che indica le zone di invenzione della scrittura, fondamentale per promuovere la nascita degli stati, e che è sovrapponibile alle altre). La conclusione che si può trarre, seguendo lo studioso americano, è che si tratta di fenomeni tutti correlati, fenomeni che sono stati una conseguenza a cascata della prima rivoluzione, la nascita dell’agricoltura e la domesticazione degli animali “utili” all’uomo. La conclusione è amara perchè dobbiamo convenire che quella che è stata la spinta propulsiva verso ciò che noi chiamiamo “progresso” e che Yali chiama cargo, è anche all’origine della nostra sventura odierna. Oggi ci impressioniamo in modo particolare perchè assistiamo in diretta all’evolversi della situazione, ma in passato i numeri sono stati assai peggiori, anche perchè la scienza medica era totalmente impotente. Per farci un’idea di quello che accadde nel 1918, ho elaborato le statistiche dei decessi avvenuti a Decollatura (CZ) nel 1918 e li ho messi a confronto con quelle degli anni immediatamente precedenti e successivi. E’ evidente che nel 1918, su circa 5200 abitanti, ci siano stati almeno 70-80 morti in più rispetto agli anni vicini e ciò significa che questi sono i numeri presumibili dei morti a causa della Spagnola (circa l’1,4% della popolazione).
Parlare oggi dell’epidemia di Covid-19 in termini di «evento mai visto», «la più grave epidemia di sempre» non fa onore a chi pronuncia queste parole perchè dimostra di avere poca conoscenza della Storia, e poca considerazione per i 600mila italiani che morirono senza alcuna cura di una epidemia molto simile.
Oggi l’enorme facilità degli spostamenti e il peggiormanto della situazione igienico-sanitaria in particolari zone dell’Italia (per limitarci al nostro territorio) causato dall’esistenza di allevamenti intensivi, rende ancora più vulnerabile e precaria la condizione sanitaria. Proprio ieri sera (13 aprile 2020) è andata in onda in Tv la puntata del programma Report dal titolo «Siamo nella ca…» (ogni puntino… una lettera) che si è occupato dello stretto rapporto tra densità deli animali negli allevamenti, il rilascio di ammoniaca nell’aria, la concentrazione di PM10 e la diffusione del Covid-19 (qui i testi della trasmissione). Tutto in linea con quanto ho cercato di riassumere in questo articolo.
Come concludere? Le lacrime di coccodrillo non servono a niente, così come non serve rassegnarsi o annunciare l’approssimarsi dell’apocalisse. E’ invece urgente modificare il modello consumistico della società perchè se a livello globale i consumatori continueranno a chiedere carne — e anche a prezzi bassi — le multinazionali degli allevamenti troveranno sistemi per produrla, riversando — letteralmente — sull’ambiente e su di noi i rifiuti che ne conseguono, dalla CO2 al letame. Oltre alle cose negative prodotte dalla concentrazione della popolazione e dalla disponibilità di molto cargo, dobbiamo annoverare la scienza e l’accesso alla cultura, le uniche due risorse che forse ci permetteranno di sopravvivere se sapremo cogliere gli avvisi che ci arrivano, compreso quello del Covid-19 che ancora dobbiamo sconfiggere.
© 2020 Giuseppe Musolino
Buongiorno. Come sempre carissimo Peppe, cogli il segno del problema attraverso l’analisi puntigliosa e documentata a cui ci hai abituato attraverso i tuoi articoli e non solo. La cosa che mi ha colpito di più è la corrispondenza che hai saputo mettere abilmente a fuoco tra l’epidemia, i continenti e la loro storia. Concordo con l’affermare con te che solo cambiando il nostro stile di vita potremo interrompere il circolo vizioso.
….si mi piace molto…ho trovato delle riflessioni comuni…spiegate molto abilmente….credo che tra le 19 persone decedute nel 1918 nella fascia d’età 20-30 ci fosse anche la mia bisnonna…